In questa 16esima domenica del tempo ordinario iniziamo a riflettere sull’orazione che faremo sulle offerte che riprende il testo della seconda lettura ed ha, come tutte le preghiere che la Chiesa ci propone di condividere una grande ricchezza e una intensità. In particolare guardiamo questo aspetto che ci permette di porre attenzione su cosa significhi realmente mettere l’offerta in comune dei beni spirituali: “Ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”.
Vuol dire che quando noi veniamo alla Messa, in particolare a quella domenicale, offrendo in onore del Signore ciò che è il frutto della nostra vita, della nostra settimana, del tempo che stiamo attraversando – non solo le gioie e le soddisfazioni, ma, e forse ci viene più spontaneo, le speranze, le paure, le fatiche, i dolori, a volte le angosce, le tribolazioni, le difficoltà – quello che noi offriamo al Signore di nostro diventa beneficio di tutti. Questo significa la condivisione dei beni spirituali: il fatto che nella liturgia che noi stiamo celebrando, anche se non sappiamo tutto di tutti – e a volte è molto meglio per evitare gossip e pettegolezzo – anche se non abitiamo tutti sotto lo stesso tetto, anche se non condividiamo la vita quotidiana, non siamo della stessa famiglia di sangue, non lavoriamo nello stesso posto, non andiamo in vacanza insieme nello stesso luogo, non prendiamo l’aperitivo o non mangiamo la pizza insieme, siamo qui e ciò che ognuno offre a Dio va a beneficio di tutti. A beneficio anche di tutti coloro che in questa domenica sulla faccia della terra, o più elegantemente sull’orbe terracqueo, celebrano la stessa liturgia eucaristica che stiamo celebrando noi.
Prendiamo un’altra frase di questa preghiera: “Come tu benedicesti un giorno i doni di Abele, così voglia tu benedire anche i nostri doni”. Ma noi ricordiamo che Abele è stato ucciso da Caino perché egli era risentito del fatto che Dio gradiva più l’offerta di Abele rispetto a quella di Caino, perché Abele dava le primizie, il meglio del meglio, Caino invece a Dio dava gli scarti.
Cominciamo pertanto ad addentrarci nella pagina del Vangelo e nella prima lettura che delineano perché noi siamo il popolo di Dio, il gregge del Signore, di Cristo che di se stesso dice: “Io sono il buon pastore”. Siamo un popolo solo che però, ci ricorda l’Apostolo Paolo nella seconda lettura, ha delle inimicizie, e la radice ultima delle inimicizie è proprio espressa nel peccato di Caino, che attenta e vuole distruggere la fraternità umana in nome del fatto che cerca – diciamo così – di ingannare Dio. Vuole dare lo scarto facendolo passare per il meglio.
La seconda lettura ci aiuta nella misura in cui iniziamo a comprendere un po’ meglio quali sono i due popoli che vengono riuniti. È il popolo di Israele, cioè di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Noè, il popolo della prima ed antica alleanza, e tutti gli altri popoli, che per il popolo di Israele sono i pagani, ma nei pagani ci sono i Parti, i Medi, gli Elamiti, gli abitanti della Mesopotamia… – ci viene in mente l’eco della Pentecoste descritta negli Atti degli Apostoli – nel popolo dei pagani ci sono tante culture, nazioni, lingue e mentalità. Perché San Paolo dice che tutti questi popoli sono un unico popolo, quello dei pagani? Perché questi popoli non hanno conosciuto Gesù Cristo, la promessa che il Signore ha fatto ad Abramo. Dunque Gesù con l’offerta della sua vita ha abbattuto il muro di separazione che abbatteva i popoli – dovremmo andare a vedere anche Noè, i suoi figli ed approfondire le varie suddivisioni delle loro discendenze sulla faccia della terra, ma andremmo troppo per le lunghe – siamo un unico popolo. Se noi pertanto diciamo che il nostro essere cattolici non dipende dal fatto del nostro essere italiani eppure non lo è del tutto una banalità, perché in Italia e in Europa accade il contrario di quello che succede nella pagina evangelica. Lì le persone cercano di capire dove approderà la barca dove c’è Gesù con gli apostoli per precipitarsi là e ascoltare il suo insegnamento. Quando c’è il buon pastore le pecore corrono, quando le persone riconoscono che Cristo è l’unico salvatore, allora ci rendiamo conto che non possiamo fare a meno di lui e tutti accorrono. Ma oggi non sembra che nelle nostre Chiese e nella nostra Italia stia succedendo questo. A questo punto è facile dire: come Geremia dà voce al Signore che se la prende coi pastori allora sarà colpa dei preti! Noi siamo aiutati dal Beato Rosmini che non dà la colpa ai preti ma, poiché la seconda piaga delle cinque della Santa Chiesa è che ci sia una formazione dei preti all’altezza delle sfide che ci sono da vivere, possiamo allora non essere polemici e riconoscere che c’è bisogno che il Signore ci mandi dei pastori veri. Riconosciamo tuttavia che oggi i presbiteri, cioè i preti, vivono una situazione che li mette come dentro ad una morsa: aumentano le responsabilità amministrative, aumenta il gregge e si chiede di riuscire a prendere un po’ dappertutto, e si fa molta fatica a fare ciò. Quando poi quacuno propone di applicare meglio il Concilio Vaticano II che ha dato il “la” per l’apostolato dei laici e quindi di dare più spazio ai laici – che è una sacrosanta verità –, accade alla fine in ogni caso che tutta la responsabilità però rimane sempre dei pastori. E allora che cosa succede? Succede cha ad un certo momento abbiamo da queste letture di questa domenica la possibilità di riscoprire il significato di quella parola che ha introdotto il Concilio Vaticano Secondo: “la pastorale”.
La pastorale della Chiesa è l’applicazione di questa realtà che il Signore ha vissuto nella Terra Santa duemila anni fa, cioè la Chiesa è il gregge di Cristo che offre ai suoi fedeli il dono della Parola di Dio, dei sacramenti e della salvifica prossimità umana che è la fraternità ecclesiale. Ma questa pastorale su che cosa si basa? Sul fatto da cui siamo partiti all’inizio della nostra riflessione, sul sacrificio della nostra vita che si radica nel battesimo.
Ciascuno di noi ha la responsabilità di far sì che la propria vita sia una conseguenza dell’offerta che oggi come tutte le domeniche siamo venuti a fare qui in chiesa. L’offerta della nostra vita a Dio non è un fatto dissimulabile. Noi possiamo far finta davanti ai nostri genitori che siamo andati a messa, possiamo venire a Messa e avere la testa da un’altra parte, possiamo professarci cristiani cattolici credenti e praticanti – voi direte già questa è una rarità, quindi anche voi preti cercate di essere meno esigenti che se no stancate le persone – ma davanti al Signore se noi facciamo come Abele o come Caino lui se ne accorge. E nessuno può giudicare il proprio fratello (a proposito di trave e di pagliuzze), ma gli effetti dei nostri eventuali inganni fatti davanti a Dio poi alla lunga si vedono anche nelle relazioni interpersonali umane. Una delle preghiere della ordinazione dei presbiteri, recita più o meno così: “Non manchi al pastore lo zelo del popolo e al gregge la sollecitudine del pastore”. Questo è molto interessante, perché vuol dire che tutta la vita della Chiesa si basa sul nostro modo di celebrare e vivere l’eucaristia.
E la nostra comunione, la nostra fraternità, la nostra condivisone, la tenuta della vita della parrocchia, della Chiesa, delle famiglie, della società è tutta concentrata nell’offerta del nostro cuore a Dio, nel dare noi stessi a Dio, nell’offrire – dice la Lettera ai Romani – i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il nostro culto spirituale; di non conformarci, cioè, alla mentalità di questo secolo, ma di rinnovarci, trasformandoci interiormente ad immagine della gloria di Dio. Nessuno ha ricette per incantesimi illusionistici… ma noi davanti al Signore in questa celebrazione, come tutte le domeniche, abbiamo una grande responsabilità: di offrire il meglio di noi a Dio proprio perché davanti al Signore non ci capiti di relativizzare l’assoluto e di assolutizzare il creativo. È più facile quando devo decidere tra bene e male, di fronte all’evidenza del male e a quella del bene si fa presto a scegliere il bene! Ma quando ho davanti due beni, uno più grande dell’altro, li vorrei tutti e due ma il bene assoluto che è Dio non accetta di essere messo in competizione con un altro bene che non è assoluto, proprio perché l’assoluto contiene tutti i beni ma nessun bene al di fuori dell’assoluto può contenerlo. E allora davanti al Signore abbiamo questa responsabilità: come ha fatto Abramo. Dio ha detto ad Abramo: “Io ti ho dato un figlio ma non te l’ho dato perché tu lo metta al posto di Dio”… o tu faccia la stessa cosa con la moglie, il marito, i nipoti … allora Dio dice: “Proprio perché voglio vedere se metti questo figlio davanti a Dio allora ti dico di ridarmelo”. Noi non possiamo trattare Dio come se fosse un bene relativo ai nostri beni familiari, spirituali, umani, anche materiali. Noi in quel momento stiamo facendo come Caino, non come Abele. Non stiamo dando a Dio il meglio di noi stessi, stiamo dando qualcosa di meno migliore, comunque pensando e sperando che Dio non se ne accorga e sia comunque a nostro beneficio e a nostro vantaggio. Ancora, davanti a Dio non possiamo assolutizzare dei beni relativi e relativizzare il bene assoluto che è lui. Anche nella Chiesa noi non possiamo dire, per esempio: la nostra cultura italiana è meglio di quella, non so, peruviana. Quindi noi possiamo essere cattolici solo con la cultura italiana perciò se noi incontriamo un cattolico peruviano rischiamo di pretendere che lui rinunci alla sua cultura e prenda la mia per considerarsi realmente cattolico. Il muro di separazione che è stato abbattuto per fare la Chiesa universale, cattolica quindi, per fare il bene di tutti i popoli è stato quello di dire che il bene relativo, che è la mia cultura italiana, davanti al bene assoluto che è la fede cattolica, non può diventare un criterio discriminante per dire se uno è mio fratello oppure no nella fede cattolica. Anche su questo abbiamo tanto bisogno di camminare insieme.
Ci aiuti il Signore a offrire noi stessi in questa eucaristia a lui, perché ciò che ciascuno offre in suo onore giovi alla salvezza di tutti e di tutti coloro che portiamo nel cuore e per i quali vogliamo pregare in questa santa Messa.
16esima domenica del tempo ordinario anno B